Non so bene perché scrivo. Ho un grande bisogno di un’amicizia cui confidare le piccole cose che mi succedono. Con cui dividere. Non so neanche perché scelgo lei. Lei è così estranea. La carta mi restituisce le frasi. Non posso più immaginare il viso chinato che legge, essere generoso del mio sole, dei miei piccoli successi, dei miei sogni. Scrivo una lettera piano piano, per risvegliare, senza crederci troppo. Forse scrivo a me stesso.
In una delle numerose lettere scritte durante le sue trasferte in continenti lontani (qui ad Alicante), Antoine de Saint-Exupéry lascia intuire la vitalità della scrittura, forza animata che gli “restituisce le frasi”. A partire da questo spunto, proponiamo una riflessione sulla pratica yogica come equilibrio sattvico tra distacco e partecipazione.
Il passaggio “la carta mi restituisce le frasi” è lucido, impietoso, icastico. Incastonato nel mezzo di una serie di “rivelazioni esistenziali” (“ho bisogno di un’amicizia”, “di condividere”, “scrivo a me stesso”), questa frase diventa l’immagine dominante che s’incunea nella mente del lettore fino al termine della lettera. Pare innocua nella sua brevità, sdrucciola mentre scivola tra dichiarazioni di grande portata, eppure – proprio per queste ragioni – è la più forte e duratura. Attraverso la costruzione grammaticale più essenziale (soggetto, verbo e complemento oggetto), Saint-Exupéry s’inventa una visione chiara e crudele, improbabile e immaginifica. Perviene al lettore come una descrizione visiva: la carta, i fogli di carta da lettere restituiscono le frasi, le linee di inchiostro tracciate dalla mano. La carta compie un’azione: un oggetto inanimato che normalmente riceve, prende vita e rifiuta l’azione dell’autore. Siamo obbligati a recuperare la nostra fantasia di bambini e vedere la carta muoversi, scuotersi fino a “staccare” le frasi dalla propria materia. Oppure, bisognosi di figuratività, a immaginare il foglio trasformarsi in omino e compiere un gesto di spogliazione attraverso piccole braccia che porgono i fili di scrittura all’uomo con la penna in mano. Non basta che l’autore dichiari “l’estraneità” del destinatario, l’immagine non è sufficientemente forte; Antoine de Saint-Exupéry preferisce far sì che sia qualcosa di fisico, gli oggetti che normalmente rispondono alla nostra volontà, a descrivere il contesto psicologico e il suo stato emotivo. Il risultato è un’immagine paradossale eppure eloquente, elegante e spoglia. Il verbo “restituire” contribuisce largamente a disegnare il tono della situazione: si restituisce qualcosa di offerto, di donato in precedenza. E accettare con serenità qualcosa che torna indietro è possibile solo se il gesto è compiuto in totale gratuità (non a caso compare la parola “generoso” dopo poco).
La lettera prosegue con il racconto di un pericolo di morte scampato per miracolo. Altri passaggi sono memorabili. Tuttavia, quella frase rimane la sintesi di come sia possibile sfruttare la condizione di solitudine e tramutarla in poesia.
Praticando yoga, ci sono momenti in cui le cose che ci attorniano restituiscono se stesse e non rispondono alla nostra volontà. Se ci si aspetta qualcosa, sorpresa, conferma o smentita del nostro fare (il tappetino che accoglie in un certo modo le nostre estremità, l’ambiente che contribuisce o impedisce la nostra concentrazione, una parte anatomica del nostro corpo che reagisce attivamente o passivamente ai nostri comandi), ne saremo completamente delusi. Quando tutto si muove attorno al nostro essere, la differenza tra noi e il resto è sempre così presente da impedirci di ascoltare altro che il noi. L’aspettativa, in proiezione ottimistica come pessimistica, è una brutta bestia (con tutto il rispetto per le bestie) perché è un filtro: mostra se stessa e non le cose come sono. Quando diamo spazioall’osservazione, il noi e le cose possono dialogare in forme diverse, con vivacità o toni smorzati. In ogni caso, partecipiamo: compiamo atti di presenza in vari modi (in primis producendo spazio), ma ascoltiamo l’indipendenza delle cose e forse anche di alcune parti di noi da noi. Lo yoga, nelle parole di Saint-Exupéry, è il foglio che restituisce la scrittura: quel che noi pensiamo d’incidere in noi stessi praticando, può tornarci indietro privo di senso e generosità. Avere coscienza dell’incontrollabilità di certi aspetti dell’esistere e dell’onnipresenza del proprio ego (“scrivo a me stesso”) è allora una tappa importante per stare meglio. Dichiararselo in tutta sincerità, altrettanto.
“Queste lettere di Antoine de Saint-Exupéry […] furono scritte tra il 1923 e il 1931 all’amica Renée de Saussine. Sono nove anni importanti nella vita dello scrittore, nove anni intensi di riflessioni, durante i quali compie il suo apprendistato – realizzando la sua passione per il volo come corriere postale in Africa e in Sud America, ed i suoi progetti letterari, con l’apparizione di Courrier Sud e Volo di notte – e affina la sua “educazione sentimentale”. Ed è soprattutto quest’ultima che prende forma in queste lettere, nelle quali si delinea una figura femminile “inventata” perché fondata non tanto su di un rapporto reale, quanto sulle aspirazioni, le speranze, le attese di una giovinezza che si avvia alla maturità” (Lettere di giovinezza all’amica inventata, Passigli, 1998).
Emanuela Genesio’s, Blue Letters Series, lithography and collage, 2000-2001. ALL RIGHTS RESERVED
La serie Blue Letters è un insieme di litografie su pietra lavorate con carte originali antiche. Emanuela ha raccolto lettere di sconosciuti e le ha poste in dialogo con i colori e le forme dell’immagine pittorica stampata su carta. Sono state esposte presso Mood Libri e Caffè a Torino nell’aprile 2001.
La carta mi restituisce le frasi
08/02/2016 emanuela blog, commento libro, pittura, scrittura, yoga BLOG, RECENSIONI
In una delle numerose lettere scritte durante le sue trasferte in continenti lontani (qui ad Alicante), Antoine de Saint-Exupéry lascia intuire la vitalità della scrittura, forza animata che gli “restituisce le frasi”. A partire da questo spunto, proponiamo una riflessione sulla pratica yogica come equilibrio sattvico tra distacco e partecipazione.
Il passaggio “la carta mi restituisce le frasi” è lucido, impietoso, icastico. Incastonato nel mezzo di una serie di “rivelazioni esistenziali” (“ho bisogno di un’amicizia”, “di condividere”, “scrivo a me stesso”), questa frase diventa l’immagine dominante che s’incunea nella mente del lettore fino al termine della lettera. Pare innocua nella sua brevità, sdrucciola mentre scivola tra dichiarazioni di grande portata, eppure – proprio per queste ragioni – è la più forte e duratura. Attraverso la costruzione grammaticale più essenziale (soggetto, verbo e complemento oggetto), Saint-Exupéry s’inventa una visione chiara e crudele, improbabile e immaginifica. Perviene al lettore come una descrizione visiva: la carta, i fogli di carta da lettere restituiscono le frasi, le linee di inchiostro tracciate dalla mano. La carta compie un’azione: un oggetto inanimato che normalmente riceve, prende vita e rifiuta l’azione dell’autore. Siamo obbligati a recuperare la nostra fantasia di bambini e vedere la carta muoversi, scuotersi fino a “staccare” le frasi dalla propria materia. Oppure, bisognosi di figuratività, a immaginare il foglio trasformarsi in omino e compiere un gesto di spogliazione attraverso piccole braccia che porgono i fili di scrittura all’uomo con la penna in mano. Non basta che l’autore dichiari “l’estraneità” del destinatario, l’immagine non è sufficientemente forte; Antoine de Saint-Exupéry preferisce far sì che sia qualcosa di fisico, gli oggetti che normalmente rispondono alla nostra volontà, a descrivere il contesto psicologico e il suo stato emotivo. Il risultato è un’immagine paradossale eppure eloquente, elegante e spoglia. Il verbo “restituire” contribuisce largamente a disegnare il tono della situazione: si restituisce qualcosa di offerto, di donato in precedenza. E accettare con serenità qualcosa che torna indietro è possibile solo se il gesto è compiuto in totale gratuità (non a caso compare la parola “generoso” dopo poco).
La lettera prosegue con il racconto di un pericolo di morte scampato per miracolo. Altri passaggi sono memorabili. Tuttavia, quella frase rimane la sintesi di come sia possibile sfruttare la condizione di solitudine e tramutarla in poesia.
Praticando yoga, ci sono momenti in cui le cose che ci attorniano restituiscono se stesse e non rispondono alla nostra volontà. Se ci si aspetta qualcosa, sorpresa, conferma o smentita del nostro fare (il tappetino che accoglie in un certo modo le nostre estremità, l’ambiente che contribuisce o impedisce la nostra concentrazione, una parte anatomica del nostro corpo che reagisce attivamente o passivamente ai nostri comandi), ne saremo completamente delusi. Quando tutto si muove attorno al nostro essere, la differenza tra noi e il resto è sempre così presente da impedirci di ascoltare altro che il noi. L’aspettativa, in proiezione ottimistica come pessimistica, è una brutta bestia (con tutto il rispetto per le bestie) perché è un filtro: mostra se stessa e non le cose come sono. Quando diamo spazio all’osservazione, il noi e le cose possono dialogare in forme diverse, con vivacità o toni smorzati. In ogni caso, partecipiamo: compiamo atti di presenza in vari modi (in primis producendo spazio), ma ascoltiamo l’indipendenza delle cose e forse anche di alcune parti di noi da noi.
Lo yoga, nelle parole di Saint-Exupéry, è il foglio che restituisce la scrittura: quel che noi pensiamo d’incidere in noi stessi praticando, può tornarci indietro privo di senso e generosità. Avere coscienza dell’incontrollabilità di certi aspetti dell’esistere e dell’onnipresenza del proprio ego (“scrivo a me stesso”) è allora una tappa importante per stare meglio. Dichiararselo in tutta sincerità, altrettanto.
“Queste lettere di Antoine de Saint-Exupéry […] furono scritte tra il 1923 e il 1931 all’amica Renée de Saussine. Sono nove anni importanti nella vita dello scrittore, nove anni intensi di riflessioni, durante i quali compie il suo apprendistato – realizzando la sua passione per il volo come corriere postale in Africa e in Sud America, ed i suoi progetti letterari, con l’apparizione di Courrier Sud e Volo di notte – e affina la sua “educazione sentimentale”. Ed è soprattutto quest’ultima che prende forma in queste lettere, nelle quali si delinea una figura femminile “inventata” perché fondata non tanto su di un rapporto reale, quanto sulle aspirazioni, le speranze, le attese di una giovinezza che si avvia alla maturità” (Lettere di giovinezza all’amica inventata, Passigli, 1998).
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