Percorrendo la mostra Burri. La poesia della materia alla Fondazione Ferrero di Alba è forte l’impressione di essere nella pittura.
La consapevolezza di esser distanti da quelle mostre-eventi-show che ingrassano il carrozzone dell’arte contemporanea giunge chiara mentre si cammina davanti a sacchi, plastiche, ferri o cretti.
Burri non scherza.
Non c’è altro oltre l’arte. È questo che è difficile stando di fronte alle sue opere.
Non c’è dato biografico a sostenere curiosità psicologiche, né racconto critico che zittisca la potenza a tratti aggressiva dell’opera. Quel che potrebbe esserci, è poesia.
Poesia è il termine che il curatore Bruno Corà ha voluto palesare sin dal titolo. Sta lì a indicare il potere originario del gesto creativo. “Se tento di parlare di pittura, mi accorgo ancor una volta che essa ha una presenza irriducibile che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione!”, si è d’altronde lasciato scappare Burri alle insistenze di chi gli estorceva parole. O ancora: “le parole non significano niente per me; esse parlano intorno alla pittura. Ciò che io voglio esprimere appare nella pittura”. “Irriducibile” è opposto a “intorno”: non si sta a far melina per dirlo in gergo calcistico, si è nella questione. Ed è questo il difficile dell’arte di Burri. Stando di fronte ai suoi quadri ci si può sentire respinti: per incompetenza essenzialmente, ma anche per impermeabilità dell’opera, quell’intraducibilità di un linguaggio in un altro che l’artista ha abitato per tutta la vita.
José Jimenez, nel catalogo Skira pubblicato in occasione della mostra, scrive: “l’arte non ha nulla a che vedere con l’ornamento. È un interrogativo essenziale sulla genesi dei sensi”. A quanti di noi interessa questo interrogativo? Credo che questo sia uno dei nodi centrali dell’arte di Burri e della nostra difficoltà di spettatori di fronte alle sue opere. Se non c’è questo interesse, non ci sono molte altre porte d’ingresso all’opera dell’artista umbro.
Ma se invece si è propensi a toccare le corde profonde che quella domanda solleva, allora la mostra di Alba diventa un vero e proprio viaggio poetico-sensoriale.
Come sostiene Bruno Corà, ma prima di lui anche Argan per esempio, nelle opere di Burri “la materia stessa, [è] “presentata” fisicamente abolendo ogni finzione mimetica”. Burri è uno degli artisti più capaci a trasformare la materia in pittura. Da materiali “duttili” come i sacchi o le t-shirt, ai legni e alle lastre di ferro, fino ai cretti di gessi, caolino e vinavil, ogni elemento si fa composizione pittorica. Anche le plastiche, bruciate e bucate, agglomerate in crateri pieni o annerite fino a diventare spazio vuoto, sono materia pittorica. Burri è l’homo faber che genera nuovi equilibri nell’esistente alla ricerca dell’attimo perfetto per arrestare l’incursione della mano rispetto all’esistente creato.
I neri e i bianchi (e in parte il rosso e il colore della iuta e del cellotex) sono leit motif tonali che insieme a una forma indicibile rotondeggiante (probabilmente retaggio del mantello della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca), funzionano come puntelli per una ricerca coerente e non ripetitiva, per un’indagine sulla traducibilità di un’idea in una materia-immagine.
L’architetto della Fondazione Ferrero, Danilo Manassero, che ha progettato l’allestimento insieme a Tiziano Sarteanesi della Fondazione Burri di Città di Castello, sostiene che realizzare un percorso nell’opera di Burri significa “fare un esercizio di ineloquenza”. Se ci riuscissimo anche noi spettatori, la mostra diventerebbe un momento per assaporare un silenzio dall’ampio respiro, gravido dei misteri originari e del desiderio sensuale che ogni creazione porta con sé.