Non ho nulla contro i turisti. Come per tutto, ogni “pratica” ha il suo perché, le sue qualità e le sue aberrazioni.
Playlist delle degenerazioni più comuni del turista in giro per il mondo:
– “I was there!”: l’importante è aver visto, esserci stato (il selfie dimostra), se poi sia successo qualcosa mentre si era lì, ha poca importanza;
– “Senza guida non si va da nessuna parte”: “essere spiegati” è necessario. Le parole delle necessarie guide turistiche per vedere, altrimenti non si capisce;
– “So già”: lo sapevo, l’avevo già visto, è o non è come pensavo. Una valanga di pregiudizi e aspettative che velano il momento presente con un altrove costruito su formae mentis ben corazzate.
C’è un frequentatore di sale di yoga che incarna questo tipo di turista. Un praticante “mordi e fuggi”, che si guarda intorno per vedere chi c’è più che non dentro sé; che ha bisogno di esser guidato a menadito per non ascoltarsi, o che confronta l’idea di “quel che si aspettava” con quel che sta per venire.
Una ragazza che ha smesso di venire a fare lezione da me (dopo un mese e mezzo di una pratica alla settimana), ha avuto il garbo di spiegarmi il perché: “adesso ho bisogno di qualcosa dove “fanno gli altri”, tipo massaggi, cinema, cose in cui io ricevo e non devo impegnarmi o concentrami”. Eccezionale. Non commento tanto è flagrante l’equivoco, ma mi preme dire ancora una cosa.
Perché non rivedere il metodo anni sessanta dei Situazionisti? Sebbene alcuni dei loro esercizi siano certamente datati e discutibili, una pratica è particolarmente interessante per il nostro argomento: la deriva. L’etimologia del termine (Treccani) parla chiaro: “trascinamento, da parte di una massa fluida in movimento, di un corpo galleggiante o immerso in essa, rispetto a una superficie fissa (fondo marino, superficie terrestre)”. Determinante è comprendere il valore di quel “punto fisso”: si abbandonano i binari, si va al largo pur essendo (o grazie al fatto di essere) su una struttura portante.
Deriva, per i situazionisti, era soprattutto camminare nell’ambiente in cui si trovavano (spesso l’architettura della città) nella casualità degli eventi e degli accadimenti, per far sì che i sensi rimanessero vivi. La deriva permetteva di errare su una struttura data, di essere pienamente dentro flussi dettati dal momento presente.
“Errare” in italiano significa due cose: vagabondare e commettere un errore. Andare lontano da punto fisso previsto, rischiare di perdersi e di fare un errore. Ed è proprio in questo punto – abbandonando la presunzione di conoscere già – che si può accedere alla realtà con meno filtri addosso. Se cadono alcuni dei tasselli per orientarsi, occorre per forza tener vivi gli istinti, le percezioni, l’intuizione. E se queste categorie rimangono vive, la consapevolezza diventa anche piacere. Ciò che rialza il gusto, la ciliegina sulla torta. È come sentire tutto l’impianto del corpo poggiando ogni singolo dito del piede sul terreno.
Molto diverso dal cercare una situazione in cui “fanno gli altri”.